Lo ammetto! Ci sono dei momenti in cui proprio mi sforzo di essere gentile. Per esempio quando vengo costantemente chiamata da operatori che cercano di vendermi nuovi contratti di luce, gas etc; quando mi sento attaccata e insicura, quando sono stanca e sotto pressione, e sicuramente in numerose altre situazioni. Se mi sforzo di essere gentile, possiamo comunque parlare di gentilezza?
Se la gentilezza non arriva spontaneamente è forse meno efficace o meno vera di quella che arriva spontaneamente? In verità è sempre gentilezza. Semplicemente una si presenta senza sforzo, l’altra va incoraggiata. È chiaramente più semplice essere gentili quando le condizioni lo permettono, quando ci troviamo in un ambiente piacevole, quando dall’altra parte abbiamo una persona disponibile. Ma come ci comportiamo con chi ci interrompe, con chi la pensa diversamente, con chi disturba la nostra quiete? Purtroppo sembra quasi che non essere gentili in questi ultimi esempi sia un diritto, sia giustificato.
Sarebbe utile osservare quanto presenti siamo a noi stessi in quei momenti. Cioè quando la situazioni è spiacevole o le emozioni difficili, se riusciamo a riconoscerle, a fare una pausa e scegliere come proseguire. La pratica della consapevolezza include sempre una pratica di gentilezza. Come mi è capitato più volte di condividere in questo blog, se non c’è gentilezza non c’è mindfulness. Se la pratica di consapevolezza è un addestramento, lo è anche la gentilezza. Quando alleniamo la presenza intenzionale e non-giudicante, stiamo di fatto allenando anche a rispondere in modo aperto e gentile agli eventi intorno a noi; stiamo allenandoci a non essere ostaggio della reattività, di schemi abituali con cui incontriamo certe situazioni.
La gentilezza è una scelta
Metta infatti, la parola in lingua pali che indica questa qualità di benevole presenza, è a tutti gli effetti intenzionale. Proprio così, la gentilezza come la consapevolezza è prima di tutto una scelta. Non è legata a sentimenti amorosi o emozioni piacevoli; piuttosto la gentilezza riguarda la sfera del comportamento, l’ethos e cioè lo sviluppo del carattere. Quando pratichiamo la gentilezza, siamo invitati a piantare un seme di gentilezza indistintamente, anche dove non verrebbe spontaneo. Questa è la pratica sul cuscino da meditazione, questa è la pratica fuori dal cuscino. Nota bene, questo non vuol dire che dovremo farci piacere tutto e tutti; sarebbe davvero impossibile e non necessario. Piuttosto che possiamo momento dopo momento non sentirci ostaggio dell’avversione, dell’odio, della confusione e che davanti a episodi sfidanti, possiamo comunque essere presenti a noi stessi e scegliere come rispondere.
Come vogliamo vivere?
Potremmo dire che si inizia a meditare, per indagare una domanda tanto semplice quanto profonda e cioè: come vogliamo vivere? Cosa desideriamo coltivare? Quale impronta desideriamo lasciare? Quali qualità vorremmo ispirare alle persone che ci sono vicine?
Mi piacerebbe dirvi che l’intenzione della gentilezza sia sufficiente. Purtroppo non è così. Momento dopo momento dovremo fare la scelta di allineare i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni alla nostra intenzione. E proprio come nella meditazione ricominciamo ogni qual volta ci siamo distratti, allo stesso modo, ricominciamo ogni qual volta ci saremo dimenticati della nostra intenzione. Anche quando non riusciamo, possiamo rammentare come questa è una pratica che dura tutta la vita.
La pratica della consapevolezza insieme a quella della gentilezza, ci permettono di fare amicizia con le situazioni difficili. Questo non vorrà dire che saremo in grado di cambiare le circostanze, ma saremo in grado di avvicinarle in modo differente. Quando piantiamo un seme di gentilezza nonostante tutto, scopriamo che insofferenza, risentimento, avversione si trasformano e noi stessi siamo trasformati. Forse facciamo esperienza di come la contrazione del corpo si distenda. Quando iniziamo a orientare la nostra mente intenzionalmente verso la gentilezza, nel tempo potrebbe diventare la forma della nostra mente, lo sguardo con cui guardiamo il mondo. Scopriamo come il nostro mondo interiore e esteriore sono interrelati.
A questo proposito, chiudo con le prime quattro strofe del Dhammapada, uno dei libri più conosciuti della tradizione buddhista che iniziano proprio ribadendo la scelta della benevolenza come antidoto alla libertà.
1
Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo
è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero torbido
è seguita dalla sofferenza,
come la ruota del carro
segue lo zoccolo del bue.
2
Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo
è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione
che nasce da un pensiero limpido
è seguita dalla gioia,
come la tua ombra ti segue,
inseparabile.
3
«Mi ha insultato, mi ha aggredito,
mi ha ingannato, mi ha derubato.»
Se coltivi questi pensieri
vivi immerso nell’odio.
4
«Mi ha insultato, mi ha aggredito,
mi ha ingannato, mi ha derubato.»
Abbandonando questi pensieri
ti liberi dell’odio.