Se avete già partecipato a un corso di mindfulness o meditazione, avrete sentito l’insegnante incoraggiarvi a un atteggiamento gentile. Che cosa voleva dire? In verità più continuo a praticare mindfulness, più mi accorgo che non si tratta di un atteggiamento accessorio: se non c’è gentilezza, non c’è mindfulness.
Spesso commettiamo l’errore di confondere la mindfulness con la semplice attenzione.
Eppure essere attenti non è abbastanza. L’attenzione che si coltiva attraverso la mindfulness, ha in sé la gentilezza. Se la mindfulness ci permette di essere presenti momento dopo momento, la gentilezza ci mostra come esserlo. La gentilezza descrive la qualità di amicizia e accoglienza che portiamo alla presenza.
Cosa s’intende per gentilezza?
La confusione sulla gentilezza nasce dal significato che attribuiamo alla parola che interpretiamo come una forma di educazione; oppure crediamo che per essere gentili dovremmo comportarci in un certo modo e riempiamo la nostra testa di dovrei, potrei, vorrei che piuttosto che farci fare amicizia con chi siamo, ci fanno sempre di più sentire sbagliati e inadeguati. L’esatto opposto della gentilezza!
Il termine in lingua pali (la lingua con cui ci sono arrivati gli insegnamenti legati alla mindfulness) è metta, che è simile a un’altra parola pali mitta, amico.
Quando portiamo gentilezza al momento presente, stiamo provando a fare amicizia, a accogliere quello che c’è così com’è.
Nota bene, questo non vuol dire che dobbiamo farci piacere ogni situazione e ogni persona (anche perchè è quasi impossibile); possiamo però allenarci a fare amicizia.
In questo senso, la gentilezza è una parola di ampio spettro che può infatti essere declinata in tanti altri modi: tolleranza, pazienza, accoglienza.
Possiamo domandarci cosa vuol dire per noi essere gentili: in certi casi vuol dire semplicemente tollerare una situazione che normalmente ci farebbe arrabbiare, in altre vuol dire imparare a accogliere un evento difficile che non abbiamo cercato, in altre vuol dire pazientare ancora un po’.
Quando siamo presenti a quello che accade dentro e fuori di noi e lo accogliamo in modo amichevole, ecco che stiamo coltivando la gentilezza. La metta è a tutti gli effetti un atteggiamento che invece di combattere, fuggire, negare, riufiutare ci porta a fare amicizia con quello che c’è. Questa modalità è capace di trasformare situazioni che normalemte accoglieremmo con stress, ansia, paura.
Allenarsi alla gentilezza
Come ho scritto sopra, la gentilezza va coltivata, possiamo dire anche allenata, installata, seminata, piantata. Se aspettiamo che nasca spontaneamente nel nostro cuore o che venga ispirata da eventi esterni o circostanziali, a voltre potremmo aspettare a lungo. Coltiviamo la gentilezza per non renderla episodica e legata a eventi esterni o al nostro umore. Cioè non è che siccome mi sento di buon umore o le condizioni sono favorevoli allora sono gentile. Piuttosto, nonostante la stanchezza, lo stress, l’antipatia, la difficoltà scelgo la gentilezza. Ecco che la trasformazione è già iniziata, e dipende solo da me, è nelle mie mani.
A questo proposito Chandra Livia Candiani scrive “Metta va chiamata, e lei risponde. Desiderarsi gentili non significa essere sempre avvolti da un sorriso e dire di sì a tutti; è un orientamento: ci rivolgiamo verso l’amorevolezza e ci lasciamo trasformare. Metta è benevolenza, coltivare la capacità di benedire, e benedire tutti e tutto, chi ci piace e chi non ci piace, chi ci salva e chi ci opprime“.
Sembra impossibile in certi casi, vero? Eppure sono certa che abbiamo già vissuto situazioni che siamo riusciti a trasformare scegliendo la gentilezza. Cosa succede quando davanti un litigio o un’incomprensione, scegliamo intenzionalmenteun pensiero, un’azione o una parola benevola? Cosa succede dentro di noi? Cosa succede nell’altra persona? Cosa succede alla situazione? È come disinnescare una bomba. Abbiamo interrotto il ciclo di reattività, insofferenza, antipatia, odio, vergogna, colpa, frustrazione, avversione. Incredibile constatare che lo abbiamo fatto noi, non abbiamo aspettato che passasse la bufera, non abbiamo aspettato che un nuovo vento soffiasse in nostro favore. Piuttosto, abbiamo installato un seme di gentilezza. Si legge nel Dhammapada “Proprio come le gocce d’acqua nel tempo può riempire una brocca, così i pensieri e le intenzioni benevole, se coltivate nel tempo, daranno frutti”.
Chiudo con una delle storia che più amo dagli antichi testi buddisti.
Quando il Buddha moriva, la prima frase che pronunciava piangendo Ananda, il suo più vicino e affezionato discepolo era “Lui, che era così gentile”.
Piuttosto che ricordare la saggezza del maestro o la profondità degli insegnamenti, le prime parole ricordano semplicemente la gentilezza dell’uomo.
E allora, che non sia forse la gentilezza l’ultima e più essenziale insegnamento da coltivare nella pratica della conapevolezza? Che non sia proprio una strada per conoscere noi stessi e il mondo? Gestire lo stress, l’ansia, la fragilità? E se tutto si riconducesse a una forma di gentilezza? A noi scoprirlo.