Dopo mesi di isolamento il desiderio di aprirci alla vita è grande. Allo stesso tempo, ci viene detto che non è finita e che dobbiamo prepararci a una nuova ondata di incertezza e che le precauzioni non sono mai abbastanza. E allora procediamo in punta di piedi.
Anche per questo ogni giorno ognuno di noi è costretto a una serie di rinunce per qualcuno difficili da sopportare e vissute con insofferenza, addirittura con un senso di ingiustizia.
Vorrei soffermarmi proprio sul tema della rinuncia. Un termine che nella nostra cultura ha un’accezione forse negativa, richiamando una qualche passività come a indicare qualcosa che subiamo, o qualcosa che non sappiamo o vogliamo fare. Ma è davvero così?
Nella filosofia buddista quella della rinuncia è una pratica che viene studiata e coltivata attraverso numerose chiavi di lettura. Si rinuncia a qualsiasi pensiero, parola o azioni possa generare sofferenza a noi stessi o agli altri. Quindi in un certo senso si tratta d una forma di generosità.
La rinuncia è direttamente legata al tema del lasciare andare. Cosa lasciamo andare? Tutti i nostri attaccamenti e aspettative su come dovrebbe svolgersi la nostra estate, la nostra vita, la nostra giornata. Crediamo di non avere attaccamenti e aspettative?
Pensiamo anche solo alla giornata di oggi: a quello che preferiamo mangiare a cena, alle persone che amiamo, alle storie che ci raccontiamo, al nostro spazio, le nostre opinioni.
Ognuna di queste convinzioni sono occasioni di pratica di rinuncia. Non sto parlando di rinunciare alle persone che amiamo, o alla vita, o alle nostre aspirazioni; ma alla sofferenza, alla fatica che facciamo nel volere che le cose vadano come vogliamo noi. La rinuncia ha a che fare con il mettere in discussione tutto quello che ci sembra indiscutibile e così mettere fine a tanti tormenti della nostra giornata. Rinunciando alla nostra visione di come la vita dovrebbe svolgersi, ci apriamo agli insegnamenti del momento presente con tutte le sorprese che questo può offrirci.
Penso a quante cose abbiamo imparato in questi mesi, al modo diverso con cui abbiamo imparato a lavorare, allo stare in famiglia secondo nuove modalità. Quest’estate molti hanno rinunciato alle solite vacanze per scoprire angoli di Italia o gite fuori porta che prima avevano ignorato.
Rinunciamo a un mondo limitato e protetto per scoprire la nostra capacità di sperimentare la vita. La conquista della rinuncia avviene non solo quando iniziamo a aprirci a questa possibilità abbandonando qualsiasi durezza o controllo, ma soprattutto quando iniziato a percepire un senso di gioia nelle nostre rinunce. Come dice Pema Chodron, rinunciare in un certo senso significa iniziare a dire “sì” alla vita.
Sperimentiamo la rinuncia tutte le volte che sediamo in meditazione e iniziamo a portare attenzione al respiro. Quasi subito siamo interrotti da qualche pensiero. Nel momento in cui scegliamo di lasciare andare quell’affascinante storia, stiamo di fatto allenando la nostra capacità di rinunciare. Tutto questo si lega a un tema cardine nella pratica della consapevolezza che è quello dell’intenzionalità. Tutte le volte che scegliamo una strada invece che un’altra con intenzione, rinunciare è una conquista piuttosto che una sconfitta. Tutte le volte che questa scelta riguarda non solo me stesso ma la comunità, la nostra rinuncia ha una valenza etica. Come probabilmente sta succedendo in questi giorni.
C’è una storia che racconta Pema Chodron in un libro “The Wisdom of No Escape” di un gruppo di persone che scalando una montagna ripida, affrontano diversamente la salita. Qualcuno si ferma alla prima difficoltà mentre altri continuando a salire ridendo e scherzando. E così lungo il cammino varie persone si fermano, si bloccano o proseguono. La morale della storia riguarda non tanto l’arrivare in cima quanto piuttosto incontrare il limite per ognuno di noi diverso, notare come lo incontriamo e cogliere che proprio lì siamo messi alla prova. In quel limite c’è la pratica della rinuncia.
“L’intero viaggio della rinuncia, o iniziare a dire di sì alla vita, è realizzare prima di tutto che sei arrivato a un tuo limite, che tutto in te sta dicendo no, e a quel punto, puoi iniziare a ammorbidirti”.
Lì inizia la nostra pratica, o per dirla con le parole del poeta Wendell Berry,
“La vera opera.
Può darsi che proprio quando non sappiamo più cosa fare
siamo arrivati alla nostra vera opera,
e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.
La mente non perplessa non si adopera. Il torrente ostacolato è quello che canta”.