Avete presente quando, davanti alle difficoltà della vita, diciamo “va bene così” ma dentro di noi non è affatto vero? Quando ci trinceriamo dietro concetti come l’impermanenza, il lasciare andare, la gentilezza eppure sentiamo ancora un peso, una ferita aperta? Spesso, in quei momenti, stiamo facendo esperienza di spiritual bypass. Il termine è stato coniato dallo psicologo John Welwood, che lo ha definito così: “Lo spiritual bypass è l’uso di pratiche e credenze spirituali per evitare di affrontare i nostri sentimenti dolorosi, le ferite irrisolte e i bisogni di sviluppo.”
È un modo di usare la pratica e certe idee spirituali, per evitare di incontrarci in tutta la nostra fragilità e per evitare il lavoro profondo dentro di noi. Per scansare il dolore, per mettere a tacere le emozioni difficili, per restare a distanza da qualcosa che in realtà ha bisogno della nostra presenza.
Come facciamo bypass spirituale?
Tutti noi agiamo qualche forma di spiritual bypass. Se siamo in un sentiero di conoscenza di noi stessi, lo facciamo e lo faremo. Perché lo spiritual bypass non riguarda solo la meditazione: è un meccanismo profondamente umano. Un modo, a volte raffinato, per non sentire troppo. Quindi è utile iniziare a riconoscerlo e prendercene cura. Eccone alcuni:
- A volte ci rifugiamo in un’idea elevata di pratica per “trascendere” il dolore. Usiamo la meditazione, il respiro o qualsiasi pratica per creare una distanza con un’emozione o un pensiero ricorrente che richiede la nostra attenzione. Piuttosto che crerare uno spazio sano di osservazione, creiamo una distanza che è più simile a un vuoto che ci allontana dal nocciolo del problema.
- Usiamo insegnamenti – o meglio, l’interpretazione che ne abbiamo dato – per proteggerci. Quindi per esempio davanti a una storia che finisce, a un lavoro che cambia, diciamo che tutto passa. Ma spesso la nostra è solo una ripetizione mentale, e non una realizzazione profonda che richiede un profondo lavoro di comprensione e accettazione.
- Crediamo che se siamo dei bravi meditanti, non dovremmo provare certe emozioni come rabbia o invidia. Se per caso riconosiamo queste emozioni, proviamo vergogna. E anche la vergogna sembra non essere adatta. Usiamo allora la meditazione per calmare la rabbia, silenziare l’invidia o la vergogna e non ci concediamo di vedere in profondità quello che le emozioni stanno cercando di dirci.
- Lo facciamo anche con insegnamenti come la gentilezza che scambiamo con buonismo o psicologia positivista, quando per esempio proviamo a praticare metta /gentilezza verso qualcuno con cui abbiamo una sofferenza di cui non ci siamo presi cura. Speriamo che indirizzare un po’ di gentilezza possa fare il lavoro. Ma è così? Piuttosto ci sovraccarichiamo di un’aspettativa emotiva difficile da realizzare.
- Allo stesso modo, provare a praticare la compassione offrendo noi stessi in modo totale e incondizionato, spesso rischiando il burnout o un esaurimento di relazioni se non abbiamo prima imparato la self-compassion e in generale a mettere dei confini per noi stessi.
- Usiamo l’insegnamento sull’equanimità, trasformandola in una sorta di indifferenza e apatia. Diciamo di “stare con le cose così come sono” ma creiamo un distacco eccessivo e il nostro è uno“stare il più lontano possibile”. A questo proposito mi viene in mente un racconto di Roshi Joan Halifax che da anni si occupa di accompagnare persone nella fase finale della vita. Quando si trovò davanti la morte della madre si rese conto che aveva due scelte: fare la “buona buddista”, accettare con dignità l’impermanenza, oppure aprirsi al dolore, lasciare che il cuore si riempisse si lacrime vere. Scelse le lacrime. Solo alcuni mesi dopo durante una cerimonia religiosa si sentì pronta a lasciare andare. Proprio perché si era concessa di attraversare il dolore.
Allora, non dobbiamo essere i bravi praticanti gentili, equanimi, e in grado di accogliere qualsiasi sofferenza con pazienza e dignità. La pratica di consapevolezza non è un programma o una dieta da seguire. Lasciamo che la pratica sia un supporto alla vita e non il contrario.
Accorgerci se stiamo bypassando
Quindi ci sono infiniti modi in cui usiamo la spiritualità per evitare ciò che invece merita la nostra attenzione. Lo facciamo tutti non solo con la meditazione, ma anche attraverso la fede, la psicologia quando ci nascondiamo dietro concetti ed etichette senza una profonda realizzazione. Ecco che allora la pratica include la nostra capacità di:
- Riconoscere quando e come lo facciamo. Probabilmente leggendo questa lista, potremmo avere riconosciuto alcune situazioni in cui abbiamo evitato qualcosa. Possiamo continuare a farlo osservando quanto predichiamo certi insegnamenti e non li riconosciamo nel corpo. Quando cioè la nostra resta una pratica mentale e non un’esperienza e una realizzazione profonda di intimità con noi stessi.
- Identifichiamo per bene di cosa si tratta, cosa stiamo provando a evitare, scavalcare, semplificare, etichettare. Come scriveva John Welwood, “Vale la pena superare lo spiritual bypass. Tutto ciò che dobbiamo fare è smettere di distogliere lo sguardo dal nostro dolore ed entrarvi consapevolmente. Questo significa la fine della vita disincarnata (non nel corpo) e la fine della dissociazione spirituale, la fine dell’analfabetismo emotivo e dell’immaturità relazionale. Impegnandoci in un risveglio a tutto tondo radicato nella coltivazione dell’intimità con tutto ciò che siamo, troviamo la volontà di portare alla luce tutto ciò che abbiamo tenuto nell’ombra. E da questa ritrovata apertura, emergiamo con i doni del nostro duro lavoro: una saggezza diretta che porta beneficio a tutti.”
- Normalizzare come parte del processo. Non esiste persona in un cammino di consapevolezza che non farà spiritual bypass. Anzi, il fatto di stare evitando qualcosa, vuole dire anche che siamo vicini a qualcosa di importante che richiede attenzione.
- Integrare la nostra scoperta nella nostra pratica. Se abbiamo la fortuna di avere un gruppo di pratica, è di grande supporto condividere i nostri dubbi e invitare ad un confronto per forse scoprire che non siamo soli.
Chiudo con una bellissima citazione di Pema Chodron che racconta il viaggio spirituale non come un’ascesa verso una montagna in cui regna la pace, la gentilezza e l’equanimità. Piuttosto come una discesa già nella profondità e nell’oscurità in cui impariamo a orientarci nella turbolenza, nel dubbio e in tutti i modi in cui la vita ci mette alla prova.
“Il risveglio spirituale viene spesso descritto come un viaggio verso la cima di una montagna. Ci lasciamo alle spalle i nostri attaccamenti e la nostra mondanità e lentamente ci facciamo strada verso la cima. In cima, abbiamo trasceso ogni dolore. L’unico problema con questa metafora è che ci lasciamo alle spalle tutti gli altri. Il nostro fratello ubriaco, la nostra sorella schizofrenica, i nostri animali e amici tormentati. La loro sofferenza continua, non alleviata dalla nostra fuga personale. Nel processo di scoperta della nostra vera natura, il viaggio scende, non sale. È come se la montagna puntasse verso il centro della terra invece di raggiungere il cielo. Invece di trascendere la sofferenza di tutte le creature, ci orientiamo verso la turbolenza e il dubbio. Ci saltiamo dentro. Ci scivoliamo dentro. Ci andiamo in punta di piedi. Ci avviciniamo ad esso come possiamo. Esploriamo la realtà e l’imprevedibilità dell’insicurezza e del dolore, e cerchiamo di non respingerli del tutto. Se ci vorranno anni, se ci vorranno vite intere, lasceremo che sia così com’è. Al nostro ritmo, senza fretta o aggressività, Ci muoviamo sempre più in basso. Con noi si muovono milioni di altri, nostri compagni nel risveglio dalla paura. In fondo, scopriamo l’acqua, l’acqua curativa della compassione. Laggiù, nel vivo delle cose, scopriamo l’amore che non morirà”.
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