Per molti anni, ho creduto che la meditazione e comunque il mio percorso di crescita fosse un percorso individuale; un cammino da percorrere da sola. Da sempre ho trovato nel silenzio e nella solitudine uno spazio profondo di conoscenza. Solo dopo anni ho compreso la centralità del sangha, del gruppo di pratica. Posso dire che la mia pratica si è trasformata proprio quando si è aperta al gruppo, comprendendo come nessuna crescita è possibile da soli. Questo mi ha portato a riflettere sulle numerose altre occasioni in cui fare parte di un gruppo permette una trasformazione.
I gruppi nella nostra vita
Da quando veniamo al mondo, facciamo parte di gruppi, comunità che a volte scegliamo e dentro cui semplicemente ci ritroviamo. Non si tratta di una casualità; sembra che gli esseri umani riescano ad evolvere proprio grazie al loro vivere in comunità. È il modo in cui impariamo, progrediamo, sopravviviamo come specie. Soprattutto come scrive Yuval Noah Harari in Sapiens, è in gruppo che riusciamo a essere felici. ”La famiglia e la comunità sembrano avere un impatto maggiore sulla nostra felicità rispetto al denaro e alla salute. Le persone con famiglie forti che vivono in comunità coese e solidali sono significativamente più felici di coloro le cui famiglie sono disfunzionali e che non hanno mai trovato (o cercato) una comunità di cui far parte.”
Fare memoria dei nostri gruppi
Provare a ripercorrere i gruppi di cui abbiamo fatto parte può essere un esercizio sorprendente. Pensando a me, mi vengono in mente la famiglia, la classe a scuola, l’oratorio, il teatro, le amiche, i colleghi, i compagni di yoga e meditazione, il volontariato e chiaramente potrei andare avanti ancora e ancora. Se guardo il mio telefono, mi accorgo che anche oggi sono parte di moltissimi “gruppi”, digitali e reali, ognuno con la sua specifica funzione e identità. Cosa ci viene in mente pensando ai gruppi? Ideali, collaborazione, aiuto, appartenenza, motivazione, crescita personale. In un certo senso ogni gruppo è un piccolo ecosistema con caratteristiche precise. Se in alcuni casi il gruppo racconta la dimensione territoriale; nella maggior parte dei casi esprime una passione, una connessione, una direzione condivisa. A volte il fare parte di un gruppo è legato a un preciso momento della nostra vita, altre volte racconta una condivisione di obiettivi, esperienze, visioni, valori che prendono forma attraverso gruppi politici, sociali, religiosi e tanto altro.
Che ruolo abbiamo nel gruppo?
Non basta far parte di un gruppo: è interessante chiederci che ruolo abbiamo in quel gruppo. Siamo partecipanti attivi o osservatori silenziosi? Siamo di supporto o ci appoggiamo agli altri senza troppo coinvolgimento? Come contribuiamo al benessere della comunità? Sappiamo quali sono le nostre responsabilità? Il modo in cui stiamo in un gruppo racconta anche qualcosa della nostra identità e del nostro desiderio di appartenenza, responsabilità, cura. Come dicevamo con alcuni gruppi con cui ci siamo confrontati su questo tema, la prima responsabilità nel fare parte di un gruppo, è esserci, presentarci. Riconoscere come la nostra presenza ha un significato e che il gruppo per potere esistere conta sulla nostra presenza. Anche, è utile riflettere come siamo stati trasformati dal fare parte di un gruppo; e responsabilizzarci sul fatto che con la nostra presenza stiamo contribuendo forse alla trasformazione di qualcuno.
Il Sangha
La parola sangha viene dal sanscrito e significa “comunità” o “assemblea”. Nella tradizione buddhista indica la comunità dei praticanti, il gruppo che cammina insieme sul sentiero della consapevolezza. Non è solo un insieme di persone, ma un sostegno vivo e reciproco: un luogo dove ci si accompagna nella pratica, ci si ispira, si cresce. La comunità di praticanti è così centrale da essere considerato nella pratica un vero e proprio rifugio. Il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, ha il merito di avere fatto della comunità un aspetto fondante e, invece di nominare un successore come la tradizione vorrebbe, ha nominato il sangha, la sua comunità come successore, dandole di continuare la trasmissione dei suoi insegnamenti. Ecco cosa scrive a proposito del Sangha: “Un Sangha è una comunità di amici che praticano con armonia, consapevolezza, e compassione. È un rifugio, un luogo dove possiamo generare consapevolezza e raccoglimento per nutrire e trasformare noi stessi”. Dunque, il gruppo è per eccellenza una cassa di risonanza in cui impariamo a fare musica insieme, veniamo trasformati e impariamo a stare al mondo”.
Molte volte dico che la sala da meditazione rappresenta il micro-mondo della realtà che vorremmo vedere fuori. Quindi, quali valori portiamo nella sala e quali crediamo siano essenziali per vivere bene con altre persone? Quanta cura riusciamo a mettere nella nostra presenza? Il rispetto, l’ascolto, il non giudizio, la gentilezza come scelta sono alcuni dei valori che proviamo a coltivare. E poi la condivisione non solo come un semplice momento di sfogo ma un atto di generosità che offriamo agli altri dal momento in cui scegliamo di esporci. Allo stesso modo potere accogliere e contenere la sofferenza che qualcuno porta con la propria storia. E poi celebrare la vita, festeggiare i successi o semplicemente il fatto di essere insieme.
Insieme da soli
Eppure da sempre, l’esperienza del silenzio e della solitudine racconta più di ogni altra la dimensione della crescita interiore. Come convivono queste due realtà? A questo proposito padre David Steindl-Rast, un monaco benedettino di origine austriaca naturalizzato americano, impegnato nel dialogo intereligioso e nell’interazione tra spiritualità e scienza, ha scritto sul tema delle comunità contemplative: c’è un equilibrio dinamico tra solitudine e comunità. Una comunità autentica non è solo un gruppo di persone insieme, ma un sistema in cui la solitudine è protetta dalla connessione e la connessione è resa autentica dalla solitudine. La solitudine senza connessione porta all’isolamento. E la la comunità che non è nutrita anche dalla solitudine dei suoi partecipanti diventa “vicinanza” priva di profondità. Una comunità contemplativa è una solitude-community e cioè una comunità di solitudine, un luogo dove ci si aiuta a preservare lo spazio interiore di ciascuno. Il fine non è la solitudine in sé, ma un ambiente in cui sia possibile vivere con lentezza, con attenzione, con gratitudine: cioè con quello spirito che trasforma ogni momento in celebrazione. Vivere in una comunità contemplativa è scegliere di proteggere il tempo e lo spazio per il significato. È vivere con lentezza, per celebrare ogni istante della vita.
Chiudo proprio le parole di Chandra Livia Candiani che parlando di questo equilibrio tra il gruppo e la solitudine scrive: “In una stanza della meditazione, si impara a stare soli insieme. Si viene invitati a stare con noi stessi, a lasciare che il corpo e il cuore-mente rivelino da sé come stiamo, ma anche a percepire l’altro, a non ritirarsi, a non separarsi, a lasciar essere. E quello di cui ci si accorge allora, stando soli in compagnia, è che non esiste la mia consapevolezza, la mia pratica, ma un procedere insieme, un risvegliarsi insieme che è tutta una scoperta. È un modo d’incontrarsi senza perdersi né in sé né nell’altro”.