Arrivare
Ci metto sempre un po’ ad arrivare, lasciare andare alcune parti di me: la moglie, la figlia, la sorella, l’amica, anche la meditante. Per qualche giorno lascerò andare tutto e mi prenderò cura di me in modo esclusivo. Spegnerò il cellulare, chiuderò i libri, il quaderno di appunti e farò spazio a ciò che è qui ora per essere vissuto. Le possibilità di scoperte sono infinite. Il viaggio porta con sé i primi semi dell’intenzione “Perché sono qui?”. Nelle giornate che seguiranno e in ogni pratica, la domanda continua come un leit motiv prendendo altre forme “A cosa sto facendo spazio?”. Un po’ come il respiro riporta l’attenzione al momento presente, l’intenzione mi riaccompagna alle fondamenta. Desidero dedicare un tempo prolungato alla pratica, rifugiarmi nel silenzio; nella sua spaziosità per assecondare una modalità dell’essere e non del fare. Per cinque giorni non dovrò preoccuparmi di sistemare la camera, né di preparerà i pasti; due insegnanti guideranno la pratica, con l’aiuto dei cimbali che scandiranno la giornata. Lascio andare anche l’orologio. Per qualche giorno non mi servirà.
Semplicità
C’è una grande semplicità nelle giornate che si alternano in un’apparente monotonia. Il naturale rallentare, permette di ritrovare la gioia delle piccole cose.
Mi accorgo, ritiro dopo ritiro, che c’è una grande ritualità nelle mie giornate. Una certa disciplina mi aiuta a scandire il senso di presenza in ogni gesto. C’è così tanta presenza in semplici gesti come decidere dove lasciare le scarpe fuori dalla sala di meditazione, o come nel ripiegare la stessa coperta decine di volte ogni giorno alla fine di ogni pratica seduta. La semplicità e ritualità sono favoriti spesso dal rigore del luogo che mi accoglie. Un vecchio convento agostiniano con lunghi corridoi e uno splendido chiostro dove dedicarmi alla pratica camminata.
Il Sangha
C’è un senso di fiducia nel condividere questo spazio con altre persone. Un implicito desidero di protezione, di non-intrusione, una promessa di non voler ferire l’altro, di rispetto anche quando qualche umano momento di irritazione sorge: un senso dell’essere insieme diverso da come siamo abituati a vivere nelle nostre giornate.
Il supporto degli altri partecipanti si presenta su così tanti livelli: nello spazio, nelle intenzioni, nel semplice essere in sala con te quando fuori è ancora buio e il letto ancora caldo. Ogni giorno, senza bisogno di sguardi o di parole, gli spazi vengono condivisi in un implicito desiderio di gentilezza. C’è da chidersi come sarebbe la pratica senza le persone intorno a noi; se ciò che abbiamo scoperto o provato nel corso di un ritiro sarebbe emerso ugualmente?
Ne parlavo con Gregoriana, un’amica che ho conosciuto un anno fa a un ritiro. Ci siamo rese conto di esserci viste solo tre volte nella nostra vita e le parole che abbiamo scambiato prima e dopo il ritiro sono poche. Eppure, c’è qualcosa di speciale in queste relazioni al punto da programmare di condividere altri momenti di silenzio insieme.
Umanità
Ci sono due momenti che mi fanno sempre sorridere quando sono in ritiro silenzioso. Il primo è l’immagine delle diverse scarpe che attendono fuori la sala da meditazione, che il fulcro del ritiro. Oltre 120 scarpe che raccontano la nostra diversità: scarpe da ginnastiche, pantofole, stivali, scarpe estive, invernali, scarpe scelte apposta per il ritiro e altre che non avrebbero mai creduto di calpestare quel terreno. La mia mente immagina le scelte che ne hanno preceduto l’arrivo, quell’arrivare che già porta con sé tanto.
Il secondo momento è quello della prima colazione e le tante scelte che raccontano di noi: chi mangia la frutta prima, chi la preferisce dopo, chi sceglie il latte di soia ma considera accettabile il burro e chi preferisce portare da casa le propri cosine. Tutto questo mi incuriosisce e mi affascina. Sorrido nel riconoscere la nostra diversità e anche la condivisa umanità.
Poi però i momenti in sala, il suono dei cimbali ci riporta a prendere posto, a prendere posto sul nostro cuscino, nelle intenzioni che ci portano lì, nella responsabilità della nostra vita. Il silenzio è un alleato potente nel sentire la profonda essenza che ci accomuna. La profondità di quel momento è commovente e un senso di presenza, unità, comunità rende quegli attimi indescrivibili. Va bene così.
Lasciare il silenzio
Faccio sempre un po’ fatica a lasciare il silenzio, sopratutto il silenzio degli sguardi. Lo spazio delicato e protetto che si crea nei giorni di silenzio deve essere rotto e con la stessa fiducia con cui ho scelto di condividere lo spazio con altri come me, lascio che i miei occhi incontrino quelli di qualcun altro, poi lascio che un sussurro provi a condividere l’unicità di quanto è accaduto. C’è molta tenerezza in questo momento, molta cura nel trovare e scegliere le parole, una fiducia totale nel sapere che saremo ascoltati e compresi. Eppure, una volta fatta esperienza del silenzio, è possibile ritrovarlo ancora e ancora nel nostro cuore e nelle nostre giornate. Si lascia il silenzio condiviso e protetto, ma c’è uno spazio che ci alleniamo a coltivare e ritrovare nel frastuono delle nostre giornate. Forse occorre solo lasciare che sia il silenzio a trovare noi, proprio come la foresta nella celebre poesia Perso di David Wagoner: “Fermo in piedi, in silenzio. La foresta sa dove sei. Devi lasciare che ti trovi“.