Dimmi a cosa porti la tua attenzione e ti dirò chi sei diceva Jose Ortega y Gasset. Un’espressione che potrebbe anche essere riscritta al contrario: chi siamo è costruito e condizionato da quello che guardiamo, a cosa scegliamo di indirizzare il nostro sguardo.
Nel corso della giornata infatti la nostra attenzione si posa su migliaia, probabilmente milioni di stimoli. Cos’è che guardiamo? Scegliamo attivamente il nostro sguardo oppure subiamo lo scorrere di immagini, suoni, notizie un po’ come si scorre il cellulare in cerca di qualcosa che ci intrattenga?
Guardare consapevolmente
La pratica di consapevolezza è senza dubbio un allenamento che ci porta a osservare in modo nuovo. Spontaneamente iniziamo a sollevare lo sguardo e aprirci al mondo non per leggerlo o interpretarlo, ma per interrogarlo. Non cerchiamo risposte ma nuove domande. È questo il potere della consapevolezza, che quindi non riguarda solo il tempo che trascorriamo sul cuscino da meditazione, ma proprio la capacità di allenare lo sguardo verso noi stessi e verso il mondo. Come dice il maestro Larry Rosenberg: “La pratica ci ricorda costantemente che ogni cosa è degna di attenzione. La formica che cammina sul pavimento, il frutto che state mangiando, ogni respiro. Queste cose sono la nostra vita, momento per momento. Se non le notiamo, non entriamo in contatto con la piena vivacità della vita. È un grosso errore, seppure piuttosto comune, pensare che la pratica implichi soltanto la meditazione seduta. (…) Vivere con una partecipazione totale comporta essere pienamente presenti in qualunque cosa sia la vostra vita in un particolare momento”.
Guardare con cura
Scopriamo che l’osservare il mondo con attenzione è una forma di cura. Mi viene in mente un esperimento che abbiamo fatto con il gruppo di Scrittura e Meditazione in cui per una settimana abbiamo scelto di osservare attentamente una pianta e di scrivere di quello che osservavamo; scoprendo quanto l’osservazione esterna riconducesse a una lettura interna. La relazione con ciò che osserviamo con gentilezza non può lasciarci indifferenti. Ciò che era ordinario diventa straordinario per non dire sacro: il cambio delle foglie, un bambino per strada che ride, una persona anziana che arranca appoggiata al suo girello, lo sguardo tra due innamorati. Mentre ci guardiamo intorno il mondo si riempie di meraviglia soprattutto quando ci rendiamo conto di farne parte.
Il Tutto
Quando guardiamo con così tanta attenzione, riusciamo a riconoscere cosa ci tocca e quale delle sei porte sensoriali è stata attivata. Un famoso testo della tradizione buddhista (il Sabba Sutta e cioè Il Tutto), racconta di come ogni esperienza che facciamo nel mondo viene percepita dal contatto con una delle 6 porte sensoriali: sguardo, odore, tatto, udito, sapore, mente. A volte neanche ci accorgiamo di questo contatto. Con il gruppo di Scrittura e Meditazione, ci siamo dedicate a un esercizio divertente. Abbiamo guardato le ultime 10 fotografie che abbiamo scattato con il cellulare provando a riconoscere cosa aveva catturato la nostra attenzione; quale delle sei porte sensoriali era stata coinvolta. Magari la vista era stata affascinata dai filamenti di una ragnatela scoperta per caso, oppure il profumo di una pietanza ci ha portato a volere ricordare quel momento per poterlo poi raccontare. Oppure la nostra mente-cuore ha provato tenerezza osservando un bambino giocare. E sì, se le ultime 10 foto sul cellulare sono sempre dello stesso soggetto, senz’altro era la mente ad avere avuto il sopravvento, probabilmente con un po’ di giudizio: la foto non ci sembrava mai abbastanza a fuoco, abbastanza bella, abbastanza instagrammabile.
Non attaccamento
La vera sorpresa è arrivata nella fase successiva dell’esercizio; quando abbiamo cioè sperimentato la possibilità di scattare foto senza avere con noi la macchina fotografica. Me lo ha ricordato questa settimana Giovanna, una praticante del gruppo che mi ha detto quanto più significative siano le foto che scatta solo supportata dallo sguardo, abbandonando la tentazione di catturare, di fermare il momento, ma semplicemente vivendolo pienamente. Questo esercizio ha allenato anche il non attaccamento a ciò che ci circonda. Abbandonando quell’umano e legittimo desiderio di fermare un momento almeno sul cellulare, ci rendiamo conto che si tratta semplicemente di un attimo destinato a fuggire, un momento di cui noi siamo parte ma che passerà. Questa struggente nostalgia è descritta in un’espressione intraducibile della cultura giapponese conosciuta come mono no aware, che racconta proprio la preziosità e la fragilità dei momenti. Eccolo come descritto dalla scritture Laura Imai Messina:
“Mono no aware s’intona a una precisa sensibilità, sottende a sua volta la capacità di essere toccati dal mondo, il sentirsi coinvolti nelle cose. Si tratta di un’abilità che va perennemente incoraggiata e limata perché non resti soffocata dal più concreto agire, alla stessa maniera in cui bisogna resistere alla tentazione di considerare inutile tutto quanto non porti guadagno o non abbia propaggini pratiche. (…) Si affina la sensibilità nell’osservazione della natura, si impara a valutare con pietosa dolcezza lo sforzo di ogni creatura, per esempio di insetti che lavorano con tutto l’impegno le forze che sono loro concesse – una formica e la briciola che porta faticosamente sul dorso – , oppure un piccolo ragno e la sua tela testarda. Quanto più riusciamo a sfruttare il nostro tempo quando sappiamo che esso avrà fine! Accade durante un incontro d’amore che vorremmo non si concludesse, durante una passeggiata in solitaria prima di tornare dal figlio che ci reclama, in quel tempo preferito della sera in cui la casa pare trattenere il respiro, quando la luce si consuma rapidamente prima di calare nel buio, in piedi in una cucina linda e silenziosa un attimo prima che si sveglino tutti e la giornata abbia inizio”.
Ecco allora che la pratica di consapevolezza ci allena a questo sguardo sensibile, all’osservazione gentile che si prende cura. Nella realizzazione della preziosità e fragilità del momento, scopriamo che nessuna foto può catturare un momento che è comunque destinato a morire. Quell’immagine che con tanta cura abbiamo provato a catturare, sarà solo la rappresentazione parziale e imprecisa di un attimo; e nel guardarla avremmo già fatto esperienza che quel momento per quanto rivisitato non sarà più lo stesso. E anche noi saremo già trasformate.