Come stai? Quante volte nel corso di una giornata ci capita di formulare questa domanda o di riceverla? Quanta attenzione e intenzione mettiamo nel rispondere o nel porla? Quante volte siamo mossi da un’abiutudine, una formalità oppure da sincero interesse?
È una domanda semplice a cui è possibile rispondere in infiniti modi. È anche una domanda estremamente delicata dal momento che è come un bussare alla porta del cuore di qualcuno. Come rispondiamo? Bene, benissimo, alla grande, ok. A volte anche dietro una risposta positiva stiamo cercando di evitare di dire: “non sto affatto bene”?
Ricordo una partecipante dei corsi di mindfulness che raccontava di come dopo la morte del figlio non sopportasse di ricevere la domanda come stai. Sembrava non esserci altra possibile risposta che la desolazione e la disperazione. Piuttosto però che dirlo, si piantava un sorriso in faccia e diceva “benissimo”.
Sono certa che ognuno di noi, pur non avendo vissuto la sua tragedia, si è trovato a fingere allo stesso modo. È utile domandarsi il perché.
- Stiamo raccontando a noi stessi che va tutto bene?
- Forse non crediamo che la persona che abbiamo davanti sia veramente interessata ad ascoltare la nostra storia?
- Siamo spaventati di non essere veramente compresi?
- Semplicemente rimandiamo?
- Noi stessi non vogliamo farci questa domanda?
Per quanto sia a volte inevitabile indossare una qualche maschera di protezione, è importante riconoscere nella nostra vita uno spazio personale in cui poterla togliere e con sincerità osservare come stiamo.
Come stiamo veramente?
Ci sono infatti tanti livelli di risposta. Possiamo restare vaghi e rispondere in armonia con le condizioni meteo, possiamo rispondere sulla base di come ci siamo svegliati, sul programma della giornata, su quanti soldi abbiamo guadagnato questo mese, su quanti like abbiamo ricevuto nel nostro profilo Instagram. C’è poi uno spazio più intimo dietro questa domanda, che include un sincero interessamento su come procede la vita, come si chiude un’altra giornata, se abbiamo fatto pace con i sogni che non siamo riusciti a realizzare, se nonostante tutto abbiamo mantenuto la capacità di continuare a sognare.
Oltre alla veloce risposta superficiale ci prendiamo il tempo di andare a fondo e domandare come sta il corpo, come sta il cuore, come sta la mente? Spesso iniziamo i nostri incontri di mindfulness con quello che viene chiamato mindful check-in dove ci prendiamo il tempo di domandare a noi stessi come stiamo. Possiamo dare il benvenuto a quello che c’è senza cambiare nulla? Quando ci prendiamo il tempo di farci questa domanda con regolarità impariamo a formulare la stessa domanda a altre persone con sincero interesse: quando impariamo a accoglierci così come siamo anche nelle nostre turbolenze, impariamo a dare il benvenuto a quelle degli altri senza sentirci smarriti. L’abitudine a domandarci come stiamo, ci permette di scoprire a volte che tutto sommato stiamo bene; nonostante le infinite storie che ci raccontiamo, nonostante le prove, le assenze, nel nostro cuore c’è ancora gioia. Abbiamo lasciato un albero verde nel nostro cuore, così che – come dice un vecchio proverbio – qualche uccellino magari verrà a cantarci sopra. Questo momento va bene così.
Come stai, nella sofferenza?
Spesso in hospice ci interroghiamo sull’opportunità di salutare o meno un malato o un familiare con questa domanda. Cioè: è il caso davanti a una persona che attraversa chiaramente un momento di sofferenza, chiedere “come va”? Forse c’è l’idea che una persona che convive con la malattia stia sempre male, che preferisca distrarsi e parlare di altro?
È utile domandarsi chi stiamo cercando di rassicurare; e forse riconoscere se siamo spaventati di ricevere una risposta che potrebbe metterci in crisi. Penso che piuttosto che le parole, guidi l’intenzione, il senso di presenza, di sincero interessamento e lasciare che i nostri occhi incontrino quelli dell’altro e dicano “ti vedo”.
In alcuni casi, può essere utile chiedere il permesso di fare la domanda; posso chiederti come va oggi? In questo modo mettiamo la persona nelle condizioni di poterci rispondere con sincerità, di abbandonare qualsiasi formalismo, chiediamo il permesso di entrare in una sfera intima e non superficiale; ci mostriamo pronti a accogliere qualsiasi risposta. Allo stesso tempo offriamo la possibilità di non rispondere.
Namaste
Quante volte domandiamo come va a sconosciuti che incontriamo nel nostro cammino e piuttosto che una domanda, risulta essere più una saluto di circostanza. La persona che ci serve al bar, un collega dell’ufficio che incrociamo al caffè e così via. Una delle mie insegnanti, Christina Feldman, ha condiviso che una delle sue intenzioni di vita, è quella di non avere più persone neutre (facendo riferimento alla pratica di gentilezza metta) e cioè di fare in modo che ogni persona che incrocia il suo cammino nel corso di una giornata, venga vista e riconosciuta in tutta la sua umanità; abbandonando qualsiasi velocità, indifferenza o non curanza. Piuttosto prendendosi i tempo di guardare negli occhi; quello sguardo vale più di tanti come stai.
Se è vero che il come stai nasconde anche un formale saluto, mi piace ricordare come in India c’è l’abitudine di salutarsi con l’espressione namaste, che potrebbe essere tradotta con “vedo la luce che è in te” e cioè riconosco il tuo valore, ti vedo. La stessa sacralità è offerta in Asia nell’abitudine di inchinarsi davanti l’interlocutore come saluto. Inchinarsi è un gesto semplice, in cui mostriamo un reciproco rispetto. L’abitudine di abbassare la testa davanti l’altra persona racconta un senso di apprezzamento, un’apertura e una disponibilità a aprirci e a ricevere. Più di mille parole, quel gesto esprime disponibilità e vicinanza. Ecco che il nostro come stai, potrebbe a volte essere sostituito o accompagnato da un gesto, un sorriso, una mano appoggiata sul cuore, uno sguardo intenso che permetta al nostro interlocutore di sentirsi visto.
Chiudo con una poesia di un’insegnante di mindfulness americana Christy Sharshel che racconta questo bisogno profondo di ogni essere umano di sentirsi visto per quello che è; nella speranza che il consueto “come stai” venga accompagnato da questa intenzione
Ogni giorno qualcuno mi guarda
Con occhi condizionati
Facendo giudizi azzardati
Sulla lunghezza dei miei capelli,
Il colore della mia pelle
La marca delle mie scarpe
Non sapendo mai cosa è reale
O chi sono io veramente
Una volta, qualcuno mi ha guardato
Attraverso un cuore compassionevole
E tutto ciò che era invisibile
È stato rivelato alla luce di esso
Dolore, paura, amore, speranza
Ferite fresche e vecchie cicatrici
Desideri e aspirazioni
E il mio cuore sorrise
Sotto quello sguardo gentile
Nella chiarezza del vedere
E essere veramente visto.
Every day, someone looks at me
With conditioned eyes
Making wild guess judgments
About the length of my hair,
The color of my skin
The maker of my shoes
Never knowing what is real
Or who I really am
Once, someone looked at me
Through a compassionate heart
And all that was invisible
Was revealed in the light of it
Pain, fear, love, hope
Fresh wounds and old scars
Longing and aspiration
And my own heart smiled
Under that gentle gaze
In the clarity of both seeing
And being truly seen