L’attaccamento è un tema centrale nella pratica meditativa e nella vita di tutti. Trovo utile riflettere su cosa associamo alla parola attaccamento. Mi viene in mente per esempio un’immagine: un pugno chiuso che stringe qualcosa, afferra, non lascia andare. Percepisco lo sforzo e la contrazione. È anche uno spazio angusto, non luminoso. È una modalità che non lascia grande spazio alla creatività.
Cosa sono questi attaccamenti? Gli attaccamenti sono pensieri, aspettative, immagini, narrazioni ricorrenti su di noi, sul mondo, definizioni, abitudini, ideali, regole che ci rendono schiavi, ostaggi. Quando meditiamo, ci accorgiamo presto di quanta sofferenza sia generata dall’attaccamento.
Ma perché ci attacchiamo e a cosa?
Ci attacchiamo a tutto: a persone, a ruoli e identità, a oggetti, a cose, al benessere e alla salute, che riteniamo un diritto sacrosanto (tale per cui quando ci ammaliamo sentiamo che questo diritto è stato violato). L’attaccamento è così naturale nella nostra vita che spesso ci rendiamo conto della sua forza solo quando qualcosa finisce: un lavoro, un sogno, una relazione, la vita. La meditazione diventa allora un aiuto prezioso, perché ci insegna non solo a riconoscere questi attaccamenti ma anche l’impermanenza — la verità che ogni cosa è destinata a cambiare — e ci permette di riconoscere la dinamica stessa dell’attaccamento. Ogni pratica di risveglio, in fondo, è una pratica di non attaccamento. E il primo passo è diventare consapevoli dei nostri numerosi, sottili attaccamenti.
Apparenza
Uno degli attaccamenti più frequenti riguarda l’immagine di noi. Il modo in cui vogliamo essere visti e non vogliamo essere visti (“non sono certo quel tipo di persona”), che si traduce in ciò che indossiamo, in come ci presentiamo secondo il nostro aspetto. L’aspetto del nostro viso, del nostro corpo, dei nostri capelli, gli abiti che indossiamo. C’è un’intera economia che si fonda su questi attaccamenti e che li alimenta offrendoci una superficiale e momentanea sensazione di sicurezza e appartenenza.
Spesso ci accorgiamo di questa illusoria sicurezza e succede che, nel liberarci di una certa immagine, cadiamo in un’altra. Da un’apparenza a un’altra. Conosco una persona che aveva scelto di non indossare alcun vestito che avesse un logo o un marchio visibile. Voleva liberarsi da certi attaccamenti legati all’immagine; ma ne era nato uno nuovo, ancora più ossessivo. Mi vengono in mente i primi versi di una poesia di Kabir che racconta di questo spostarci da un attaccamento a un altro in cerca di una qualche sicurezza.
Ti prego, amico, dimmi che devo fare con questo mondo
che continuo a estrarre da me stesso!
Ho rinunziato alle vesti lussuose e mi sono comprato un saio,
ma un giorno mi sono accorto che il tessuto era di buona fattura.
Così ho comprato un saccaccio di iuta, ma ancora
lo indosso con ricercatezza sulla spalla sinistra.
Attaccamento all’identità
Oltre ad attaccarci alle cose, ci attacchiamo a certe identità. A volte si tratta di ruoli che abbiamo avuto per parte della vita, che altri ci hanno cucito addosso. A volte si tratta di identità che raccontano un certo tratto di vita in cui abbiamo rivestito un ruolo all’interno della famiglia o della società. Quell’identità diventa come un abito che vestiamo a pennello. Poi, a un certo punto, quel vestito non ci va più bene; gli eventi della vita lo strappano via con violenza. Questo a volte provoca un tremendo smarrimento. Riteniamo che la nostra felicità sia basata su quell’immagine o su quell’identità che abbiamo costruito. Cosa succede quando questa identità viene messa in discussione? Chi siamo veramente? In altri casi la caduta di certe identità apre un nuovo spazio di ricerca. I versi iniziali di una poesia di Emily Dickinson raccontano delle possibilità che arrivano quando ci liberiamo di certe identità:
Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Di recente sono stata a casa a Palermo e dovevamo sgomberare un garage di famiglia che raccontava le nostre vite, le nostre identità, i tanti ruoli che abbiamo ricoperto e anche i nostri attaccamenti. Quanta difficoltà nello scegliere cosa buttare, nel lasciare andare un libro sottolineato, un articolo, una foto; consapevoli di come ogni oggetto raccontasse un’epoca diversa, una passione, una fase.
Pensieri e storie
Un’altra forma di attaccamento assai frequente riguarda i nostri pensieri, le idee sul mondo, le opinioni, le storie che raccontiamo su noi stessi. Spesso ripetiamo queste storie come un disco rotto, anche quando ci portano sofferenza. Il nostro quindi a volte è anche un attaccamento a certa sofferenza. Ci aggrappiamo a queste narrazioni perché ci abbiamo investito tempo ed energia. L’idea di lasciarle andare ci spaventa: come se senza di esse rimanessimo vuoti. Chi sono io senza questa storia? La meditazione ci aiuta a vedere lo spazio angusto dentro cui ci chiudiamo quando siamo in questa narrazione. Se qualcuno ci raccontasse le storie che ci ripetiamo da anni, forse diremmo “basta”. Ma raramente riusciamo a dirlo a noi stessi.
Ci attacchiamo a opinioni e punti di vista che a volte sono anche preconcetti e definizioni del mondo. Spesso questi attaccamenti sono fonte di grandi malintesi e discussioni. O almeno è così per me quando discuto di politica con mio marito e entrambi restiamo così attaccati alle nostre “giustissime opinioni”. Sono scenari presenti in numerosi altri contesti familiari, lavorativi, relazionali in cui piuttosto che stare nella complessità e rinunciare al nostro punto di vita e ascoltare pienamente l’altro, ci chiudiamo in un dualismo che crea divisione e sofferenza.
Praticare con gli attaccamenti
La consapevolezza è il primo passo per riconoscere i nostri attaccamenti e la sofferenza che ne deriva. Insieme a questa possiamo osservare la gratificazione sottile e illusoria che ci fa ripetere certi comportamenti. Possiamo allenarci al non-attaccamento praticando con la rinuncia, imparando a dire no, cambiando strada.
Rinuncia
Allenarci alla rinuncia significa non agire subito un pensiero, non esprimere ogni idea, non cercare sempre quella situazione che ci dà sicurezza. Nel Dhammapada si legge: “Se rinunciando a una felicità minore è possibile trovarne una maggiore, una persona saggia rinuncia a quella minore per la maggiore.” Ma quanto è difficile? Già l’idea di rinunciare può creare qualche dubbio: non vediamo ancora la felicità maggiore che ci attende. In questi momenti può aiutarci un semplice atto di fiducia delle nostre capacità, ricordando anche a tutte le volte in cui una rinuncia ci ha portato libertà e beneficio.
A me aiuta osservare e lasciarmi ispirare da chi incarna una certa libertà interiore — maestri, monaci, persone che vivono con poco — e che trovano in questa apparente povertà tutta la ricchezza possibile. La stessa sensazione e ispirazione arriva per me durante un ritiro di meditazione, in cui inevitabilmente pratichiamo il non attaccamento: scopriamo di quanto poco abbiamo realmente bisogno nel corso di una giornata, e quanta pace nasce da quello spazio libero.
Imparare a dire di “no”
Coltivare la saggezza del “no” significa chiederci, momento dopo momento: “Questo pensiero, questo attaccamento è utile? Quale nutrimento porterà?”. Ricordiamo che ogni volta che diciamo di no a qualcosa, stiamo dicendo sì a qualcos’altro. Possiamo allora portare maggiore attenzione a cosa stiamo dando nutrimento. In questo senso è utile rammentare la figura del guardiano alle porte della città, che praticando il discernimento sceglie chi e cosa intrattenere e a cosa dire no. È in questo spazio di presenza, tra un sì e un no consapevole, che la libertà comincia a respirare.
“Cammino per un’altra strada”
La mindfulness, la consapevolezza, ci aiuta a riconoscere momento dopo momento dove ci troviamo e accogliere e riconoscere i piccoli e grandi successi nel liberarci da automatismi. La poesia Autobiografia in cinque capitoli di Portia Nelson, racconta di come camminando per la strada continuiamo a cadere sempre nella stessa buca. Ci raccontiamo che non è colpa nostra, che è ormai un’abitudine, che non sappiamo fare diversamente, ci lamentiamo della fatica che facciamo per uscire. Ecco che la prima vera consapevolezza è aprire gli occhi, diventare responsabili di dove ci troviamo. No, non siamo vittime impotenti di un destino crudele o impigliati in un verdetto che ci vede perdenti. Questa consapevolezza ci permette di muoverci, di liberarci con maggiore velocità da situazioni e attaccamenti. Nel tempo scopriremo come aggirare la buca e addirittura cambiare strada. Anche per gli attaccamenti possiamo iniziare ad aprire gli occhi, prenderci le nostre responsabilità, cambiare strada.
Ecco che forse intuiamo come al centro di tutti questi attaccamenti c’è l’“io”: questo universo che cerchiamo di definire attraverso l’apparenza, le identità, i pensieri. Nel tentativo di definirci, ci limitiamo e creiamo un’immagine ridotta di ciò che potremmo essere. Praticare con l’attaccamento non significa negare ciò che amiamo, ma imparare a tenere con leggerezza. È un invito a vivere con il cuore aperto, consapevoli anche di come tutto ciò che nasce è destinato a trasformarsi. In questo lasciar andare, lentamente, scopriamo una certa libertà, una responsabilità e possibilità che abbiamo di scegliere, di smettere di stringere, insistere, di sforzarci e ci concediamo di cambiare strada.







